Mi piace pensare, pur infangata della mia vena sognatrice, che il Kenya non sia un posto di immediata comprensione.
È piuttosto un vaccino a lenta iniezione.
Eppure c’è quel non so che di platonico, che ti spinge ad amarlo, inspiegabilmente. Ci si riconosce presto, tuttavia. Come si riconosce un amore atavico dimenticato. E piano piano risale a galla.
È a quel punto che riconosci le sue coste selvagge, frastagliate e ardenti. Riconosci il verde rigoglioso che dilaga senza confini. La natura ruggente. La leggerezza, quella vera, del vivere alla giornata, sorvolando tutto il resto.
Il Kenya ricorda la parola libertà. Quella dei bambini rotolati in un renaio, senza pensieri, che di libertà sono immondi.
Potrebbe essere il ricordo della tua culla, prima che l’ordine attecchisse nella tua mente.
Il Kenya vive nelle strade stridule del rumore di un caos partecipante, mai monotono.
Nelle chilometriche spiagge cristalline, ricoperte da lenzuola di gente, vaganti sulla sottile riva d’acqua, in cerca di profondità.
In paesaggi atopici, già vissuti in un film.
In un “Mambo” reiterato di un passante, che riecheggia mentre passeggi.
Il Kenya è un saluto pugno contro pugno, che sancisce un’amicizia istantanea.
È un’ipnosi inconscia, del sorriso di un bambino con gli occhi più belli della galassia.
È una trappola dolce, che ti rivolta i pensieri e non ti porta più al punto di partenza.

















